Intervista a Camille Barrios, insegnante di Movement Medicine
Intervista realizzata dall’artista Lucrezia Costa per la sua mostra On the Fault line presso Jardino curata da Julia Rajacic a Milano nel 2022
Lucrezia Costa: Ho sentito il bisogno di confrontarmi con te perché attraverso la tua pratica, la movement medicine, ho capito che hai sviluppato (e sviluppi quotidianamente) una percezione e una consapevolezza profonde del tuo corpo, elementi che a me spesso mancano e che ho toccato per degli istanti molto brevi della vita attraverso un’esperienza in Spagna ho avuto modo di capire che sono in grado di muovere il mio corpo facendolo remare nella stessa direzione della testa e questo capita raramente nella quotidianità dentro a un contesto urbano.
Mi piacerebbe che mi raccontassi il rapporto col corpo dal tuo punto di vista e come si può uscire dal processo di addormentamento continuo a cui siamo sottoposti. Come lo fai attraverso la tua pratica?
Camille Barrios: Per parlarti della mia pratica devo spiegarti cosa mi ha portato lì perché effettivamente è un percorso simile al tuo: per varie ragioni, tra cui un momento di dolore personale, ho iniziato un percorso più profondo di conoscenza di me e, attraverso le costellazioni familiari, ho iniziato un processo terapeutico che utilizza molto il sentire del corpo. Quando si entra in un campo poi si aprono altre porte e il lavoro che si fa, diventa un lavoro collettivo, sopratutto rispetto a ciò che ci forma interiormente nel corso degli anni, anche grazie all’eredità familiare. Sono arrivata ad un punto in cui mi sono resa conto che ero congelata, nel senso che tutto ciò che avevo all’interno era fermo, non si muoveva nulla, mi sentivo come se stessi aspettando qualcosa. Da li ho iniziato a cercare di capire da cosa era data quella sensazione di congelamento e, attraverso una serie di esperienze, sono arrivata a un corso di 5Ritmi, ovvero una pratica di danza consapevole fondata da Gabrielle Roth.
La danza consapevole è un modo per entrare pienamente nel corpo attraverso la musica e lasciando andare la mente. È stato come aprire tutte le finestre in una stanza, mi sono chiesta dove ero stata fino a quel momento e questo ha generato in me una grande liberazione e intimità perché ci sono tantissime emozioni che si sono liberate e che volevo seguire. Da lì ho iniziato con la pratica che io insegno, la Movement Medicine® che viene dai 5Ritmi e quindi ho imparato che, oltre al movimento, in questa disciplina vi sono pratiche sciamaniche che generano una profonda connessione con la natura. Attraverso questa pratica si ricrea quella connessione con la natura che tutti gli indigeni hanno dentro di sé e che noi occidentali abbiamo perso nell’ambiente cittadino.
La danza consapevole consiste nel capire che nel embodiment non è il corpo che segue la mente, ma la mente che segue il corpo: noi siamo di solito completamente nella testa, soprattutto in una società dove il fare e la produzione hanno una rilevanza così forte. Rimaniamo nella testa e scolleghiamo il corpo, ma con la danza consapevole lasciamo andare la mente, quella che vuole controllare tutto, che ha paura, quel chiacchiericcio di sottofondo che c’è sempre, e lasciamo che il corpo abbia l’intuizione e sia in grado da solo di risvegliarci delle informazioni incredibili.
L.C.: Forse è questo che intendevo: quando mi sono trovata davanti a quella situazione nel deserto, davanti a una parete così ripida, la prima cosa che la mia testa mi ha detto è stata: «Lascia perdere, non fa per te, è troppo difficile», ma poi è successo qualcosa. Forse la stima e l’aiuto dei compagni di viaggio mi hanno fatto capire che non avevo nulla in meno di nessuno e che potevo farlo, trasformando il panico in una forza incredibile.
C.B.: Questa parte della testa che ha paure, le limitazioni che ci dicono che non siamo abbastanza, è una parte ben precisa dentro di noi, quindi se abbiamo il potere di gestire la paura, allora siamo in grado di andare oltre. Nella danza consapevole non do mai indicazioni strette su come ci si deve muovere, ma pongo l’attenzione su sentire certe parti del corpo così da acquisirne consapevolezza, una specie di mindfulness in movimento. Ad esempio, chiedo di far muovere i gomiti e seguirli per comprenderli, come in un’esplorazione: i movimenti non sono belli, non sono brutti, giusti o sbagliati, quello che c’è è giusto e ogni movimento di chi partecipa è unico, e va bene così. L’aiuto che viene dato consiste nella musica che viene scelta al momento perché inizia anche una condivisione e un feedback tra tutti, un momento di ascolto e restituzione collettiva che determina anche il tipo di atmosfera. I movimenti vengono seguiti e seguono il ritmo, quindi danzi liberamente ed è davvero liberatorio in un modo che socialmente non viene abitualmente accettato.
Nella danza occidentale il movimento è iper controllato, qualsiasi sia il genere che si considera, c’è sempre un movimento che deve essere eseguito in modo da giungere sempre più vicini a una perfezione imposta da non si sa bene chi.
Il corpo viene quasi trattato in modo disumano, la ballerina deve essere magrissima oppure deve essere muscolosa. Il corpo non viene più visto così com’è, ma come uno strumento che deve essere plasmato secondo un canone che non è uguale ne giusto per tutti.
Trovo, allo stesso tempo, che sia assurdo credere che un corpo possa davvero stare dentro un canone perché i canoni eliminano la complessità e le diversità, generano omologazione appiattimento. Se devo pensare al primo responsabile nella mia vita che mi ha inculcato l’idea dei canoni è sicuramente il sistema scolastico. L’ultimo momento in cui credo di aver avuto un rapporto sensato e sentito con il mio corpo è stato all’asilo, quando gli intervalli duravano due ore e ci si sfiniva correndo e giocando, cercando di capirsi inconsapevolmente, scoprendo i propri limiti e le proprie abilità. Da una certo punto in poi bisogna invece sempre stare seduti a un banco e ascoltare e anche l’ora di ginnastica, ricordo, che diventava un incubo. Lentamente scivoli dentro un’inconsapevolezza di te per cui il corpo viene dimenticato, fino a che non sta male o irradia un dolore e allora ci si rende conto che c’è. Foucault scrive: «[…] E poi, questo è leggero, trasparente, imponderabile; niente è meno cosa di lui: corre, agisce, vive, desidera, si fa attraversare senza resistenza da tutte le mie intenzioni. Si, ma solo fino al giorno in cui ho male e la mia gola parte, la caverna del mio ventre si approfondisce, il mio petto e la mia gola si bloccano, si intasano, si riempiono di stoppa; fino al giorno in cui il mal di denti si irradia fino al fondo della mia bocca».
Il corpo è la nostra casa e quando qualcosa non funziona diventiamo uno spazio sacro che deve essere ‘sistemato’.
Che rapporto hai con il tuo corpo? Ad esempio quando ti viene un mal di pancia o un mal di testa, come reagisci emotivamente?
Il dolore è dolore e non è piacevole. Non ci sono pillole miracolose e alcune medicine possono aiutare perché a volte la parte del corpo è talmente materiale, fatta di ossa e muscoli che, se c’è un’infiammazione, si sente e l’unica cosa che possiamo fare è lavorare a sfiammare la zona colpita. Nella mia esperienza e nel mio rapporto con me stessa, so cosa mi fa bene o no perché lo sento. In questi anni ho cambiato dieta perché sentivo quali cibi mi facevano bene e quali mi danneggiavano e a volte anche questo cambia: ora sono in un momento di passaggio, ho appena compiuto cinquant’anni e il mio corpo sta cambiando per entrare in un’altra fase della donna, quella della menopausa, una fase ormonalmente e biologicamente diversa e nuova. Sono in ascolto e credo molto nel potere biologico del cibo come medicina, nel benessere, nel ridurre lo stress e far si che questo corpo sia trattato nel modo migliore possibile. Un conto è curare i sintomi e un conto è arrivare alla radice del problema e arrivarci implica un lungo periodo di ascolto e di pazienza.
Quello che posso dire è che anche questa pratica mi ha dato, oltre al benessere e alla guarigione, uno spazio che ho per ascoltarmi veramente, per ascoltare il cuore, non tanto fisicamente ma proprio emotivamente, come sto. A livello fisico per esempio, se ho qualche dolore, è importante anche solo portare una mano sulla zona dolente, provare a modulare il respiro in base al dolore e magari con dei piccoli movimenti capire se riesco ad alleviarlo in qualche modo, portando consapevolezza e dando spazio a quella sensazione ascoltandomi. Sento anche in questo modo un senso di empowerment che mi fa capire che quello che sento è giusto, andando in controtendenza con il processo di addomesticamento di cui parlavamo prima. Tutto sommato il processo generico ha il solo scopo di toglierci potere, ci chiede di stare seduti e ascoltare stando fermi e va benissimo perché ad alcune persone è congeniale questo, ma a molte altre no.
Devo avere il potere di scegliere, di sapere che magari ciò che va bene per te non va bene per me e con rispetto conviviamo facendo scelte diverse.
Questo viene molto dall’intuizione, spesso femminile ancor di più: come donne siamo dotate di un’intuizione data anche dal ciclo mestruale ed è importante comprendersi anche per sapere quali sono le fasi di riposo e isolamento e quelle di apertura e socialità, ci sono tanti cicli che possiamo ascoltare.
Prima dicevi che l’esperienza del «congelamento» ti ha portato a comprendere questo percorso. Ma capita spesso di avere la sensazione che intorno a me le cose siano ferme e io aspetto qualcosa come se ci fosse una concezione temporale sottile e difficile da cogliere. Ho un modo molto emotivo di affrontare la vita e quindi sento come il bisogno di avere molti accadimenti tutti insieme. Come sei uscita da questo stato di attesa?
Il mio congelamento non era visibile, io non lo sentivo, era qualcosa che era emerso nel mio sistema familiare. Detto questo, per me è stato un lungo percorso di terapia e altre esperienze che, tutte insieme, sono state il grande aiuto per scoprire qualcosa di più su di me, perché alla fine è questo ciò che vogliamo. Una volta che ti scopri, puoi muoverti, la pratica aiuta perché il movimento aiuta la psiche a guarire in quanto strumento trasformatore. Le emozioni si muovono: quando arriva una sensazione di tristezza, la lasciamo entrare, la accogliamo, la sentiamo, la trasformiamo, ci lavoriamo su e cerchiamo di capire perché arriva quella tristezza e dove si sente nel corpo. Muovendola poi, riusciamo a non sentirci sopraffatti trasformandola e creando qualcosa di diverso e positivo.
Ogni scelta o non scelta che si fa sulla nostra vita influenza il nostro corpo e per questo mi sento di ricordarmi quotidianamente di essere attenta alle strade che percorro perché abbiamo un corpo solo e non è eterno.
Questo è importante collegarlo con la terra e gli elementi naturali, quando dici che è importante non sprecare le risorse e prendersi cura di sé, questo porta anche ad avere un atteggiamento diverso nei confronti della natura. Noi siamo intimamente legati alla terra e quando entriamo in contatto anche con l’ambiente. In inglese c’è una parola molto bella che è difficilmente traducibile che è «embodiment» ed è quando senti qualcosa nel corpo e lo recepisci, questo ha la capacità di creare un sapere diverso, diventa saggezza. Quando sai qualcosa è conoscenza, ma quando qualcosa entra dentro il corpo e impari attraverso il corpo diventa saggezza.
Diventa qualcosa che si avvicina alla carnalità, alla materia, ed è strano perché questo processo di avvicinamento a me stessa e alla natura è avvenuto durante il periodo meno propizio, il lockdown. Nonostante fossi chiusa in casa mi sentivo sempre più vicina alla terra e avevo bisogno di trovare analogie tra il mio corpo e le sue cicatrici e il corpo del mondo e le sue cicatrici.
Esiste un parallelismo e più si prende coscienza del proprio corpo e più ci si sente vicini alla terra.
Mi piacerebbe sapere come affronti il dolore, un tema che nella contemporaneità viene lasciato da parte perché fa paura ed è scomodo, ma io credo sia bla chiave per una rinascita, è ciò che ci rende davvero umani e che ci fa rimanere saldi su questa terra.
Da settembre sto facendo un viaggio attraverso il dolore: ad agosto ho avuto il covid, e anche se non ho avuto problemi gravi, ho avuto alcuni sintomi che mi hanno fatto sentire lontana da me stessa. Proprio grazie a questa situazione e attraverso esami hanno scoperto qualcosa nel cervello che consigliavano di rimuovere con chirurgia neuro-vascolare. Tutta questa situazione di assoluta sorpresa ha generato in me una forte paura che trovo sia strettamente connessa al dolore: sono un essere umano e in quanto perfettamente imperfetta so che non viviamo per sempre. Avevo compiuto cinquant’anni e avevo nello stesso periodo delle vicende personali in corso che si sono mescolate ad un dolore collettivo innescando un «click» di dolore e paura. Ho dovuto capire come andare oltre quel senso di sopraffazione, prendere decisioni importanti e curarmi, capire me stessa.
Sono entrata in una spirale dolorosa e sento che ora ne sto uscendo, ciò che posso dire è che è stato fondamentale lavorare con il nervo vago. Quando entriamo in uno stato di paura o di dolore si attiva la parte animale che ci porta al congelamento, alla fuga, all’attacco o all’adrenalina, e per me è stato importante sentire tutta questa paura e tutti i sentimenti negativi che provavo. Dover fare i conti con la propria mortalità è stato veramente duro da affrontare e la meditazione mi ha aiutato molto a ritrovarmi e a pensare. I movimenti dovevano essere molto cauti e calmi perché ogni cosa rapida o brusca mi aggrediva e mi portava nervosismo, quindi avevo degli escamotage fisici che mi aiutavano, come ad esempio mettermi una coperta addosso che mi desse sicurezza. Alla fine il corpo ti indica sempre la via se sai ascoltare.
Ti chiedo un’ultima cosa: cos’è per te l’equilibrio?